Il Re del Reggae col calcio nel cuore: Bob Marley
“Qualora non avessi fatto il cantante, con ogni probabilità sarei stato un rivoluzionario o un calciatore. Il calcio vuol dire libertà, creatività, dare libero sfogo alla propria ispirazione” – Con questa frase, un tale di nome Robert Nesta Marley racchiudeva tutto il suo essere, tutta la sua essenza. Si, state pensando bene, è il Re del Reggae, Bob Marley.
Giamaica settentrionale, regione di St. Ann’s Bay, in un villaggio ai piedi della collina di Nine Miles chiamato Rhoden Hall, nasce nel 1945 Bob Marley. Si presume che fosse il 6 febbraio, anche se la data resta ancora incerta. Il padre, Norval Sinclair Marley, un giamaicano bianco di origini inglesi, la madre, Cedella Booker, giamaicana nera appena diciottenne. Non proprio una relazione tranquilla, visto il periodo, infatti Norval lasciò la moglie mentre era ancora incinta di Bob. Lo stesso bambino fu vittima dei pregiudizi raziali a causa delle sue origini miste, una questione sulla sua identità che si trascinerà per tutto il corso della sua vita. Un’infanzia molto simile a quella dei tanti bambini dei paesi poveri del post Seconda Guerra Mondiale, già il fatto di avere un pallone per giocare in strada era considerato un lusso. Robert ebbe questa fortuna però riusciva ad organizzare partite di calcio improvvisate con lattine, bottiglie di plastica, cumuli di stracci tenuti insieme da un semplice spago. Lo scenario è quello del ghetto di Trenchtown, nella capitale Kingston, una città violenta e malfamata, in cui si era trasferito con la madre a metà degli anni 50. Proprio qui nasce l’amore per il pallone, che lo salverà da un altro tipo di vita, e conosce un certo Peter Tosh, con cui avrà un grande successo musicale. Con i soldi guadagnati dei primi dischi, Marley fece costruire un campo da calcio nella sua residenza di Kingston, a Hope Road 56, dove ogni giorno amava sfidare familiari e amici, tra questi Allan “Skill” Cole, la più importante espressione del calcio giamaicano dell’epoca e attaccante della Nazionale.
Con il passare del tempo la situazione a Kingston non migliora, mentre quella di Marley decisamente si, diventando un affermato musicista di fama mondiale. Qualcuno nella capitale caraibica inizia a puntare Bob, che nel frattempo ha messo su famiglia. Così un giorno del 1976, dopo un attentato rivolto a lui, alla moglie Rita e ai suoi figli nella loro casa, fortunatamente andato male, arriva la decisione di trasferirsi lontano. Si dirà poi che l’attentato fu conseguenza dell’instabilità politica generata dalla musica di Marley. Ma dove si va però? Siamo nel pieno degli anni 70, precisamente nel 76, la cultura hippie ha già raggiunto l’apice della sua evoluzione, Jorge Rafael Videla attua il golpe in Argentina rovesciando il governo di Isabelita Peron, Steve Jobs fonda la Apple, muore Mao Tse-tung, esce l’album The Song Remains the Same dei Led Zeppelin e i Queen pubblicano A Day At The Races. Ma Bob Marley? Si trasferisce a Londra con famiglia e il suo gruppo, i Wailers, al seguito. La scelta del quartiere ricade su Chelsea, al numero 32 di Oakley Road, a pochi passi da Battersea Park, il loro stadio dell’epoca.
Qui Marley, nella patria del calcio e con l’aiuto dell’amico Cole, fonda una società calcistica, la House of Dread Football Club. Nella rosa ovviamente c’erano Bob, Cole, tutti i componenti dei Wailer (Aston “Family Man” Barrett, Carlton Barrett e Alvin Seeco Patterson) e l’equipe al seguito, ossia il cuoco Jill e il tecnico delle luci Neville Garrick. Gli esordi in partite amatoriali nei vari campetti disseminati tra i quartieri di Londra, tra cui la memorabile sfida con la National Front, squadra di calcio legata a correnti razziste. Una gara in cui Bob e compagni non si tirarono mai indietro, con un agonismo paragonabile a chi il calcio lo faceva di professione. Il team rastafariano disputò solo una sfida con dei professionisti e avvenne contro il Nantes, in occasione del tour europeo dell’album Uprising. Una gara 5 vs 5, finita 4-3 per i francesi.
Ma Bob che ruolo aveva? Era un buon regista, ma in realtà non aveva nessun ruolo. Lui, come la sua musica, era fuori da ogni schema, come interpretava le sue canzoni così era per il calcio, con la mente libera e con il piacere di giocare a pallone, in modo felice e spensierato, attorniato dai suoi amici. Aveva diverse doti, poteva benissimo giocare a centrocampo come regista, ma non era il tipo che toglieva la gamba in un contrasto. Proprio per questo, il 10 maggio 1977 nel corso di una partita, Bob è vittima di un duro contrasto di gioco nello stesso punto dove qualche anno prima aveva subito un’entrata simile. Solitamente si rialzava subito, ma questa volta resta a terra toccandosi la punta del piede. Marley si fa medicare e torna in campo per finire la partita. Nonostante l’antitetanica, perse l’unghia e contrasse un’infezione a cui non fu posto rimedio per i successivi due anni, anche a causa di qualche consiglio non proprio giusto. Solo nel 1980 si scoprì che da quel banale infortunio di gioco, un cancro si era diffuso per tutto il corpo del Re del Reggae. Bob Marley morirà l’anno seguente, nella mattina dell’11 maggio 1981, tornado nella sua isola dove fu tumulato una chitarra Gibson, una canna d’erba, una copia della Bibbia aperta al salmo 23, l’anello regalatogli dal principe etiope Asfa Wossen e, per l’appunto, un pallone da calcio.
“Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale, nessuno a parte noi stessi può liberare la nostra mente…” – Il mito di Marley continua a vivere anche nei giorni nostri, sia in ambito musicale e sia nel quotidiano. Il mondo del calcio non si è sottratto a tutto ciò. L’Ajax, durante l’intervallo delle gare casalinghe alla Johan Cruijff Arena è solito far risuonare negli altoparlanti qualche successo di Bob, mentre il Bohemian, squadra di calcio irlandese, nel 2019 dedicò la sua seconda divisa al Re del Reggae, anche se fu negata l’autorizzazione dai curatori dell’immagine del cantante, ma noi vogliamo pensare che Bob avrebbe gradito e sarebbe diventato il primo tifoso dei The Gyspsies.
Gianfranco Collaro